L’etimologia della parola “mostrare” tradisce l’unità alla base dell’eterna dicotomia tra forma e sostanza. “Mostrare” infatti deriva dal latino “monstrare”, parola che ha la sua radice nel sanscrito mon-man che significa “pensare”. Se quindi ciò che mostro è ciò che penso e viceversa, si esclude la possibilità di una dualità tra l’esterno e l’interno. Ovvero quella divisone, tipicamente occidentale, tra il corpo e la mente. Questa scissione è alla base di pregiudizi e stereotipi che, oltre ad operare una suddivisione tra ciò che appartiene al mondo dell’apparenza e ciò che appartiene alla sostanza delle cose, giudica come superficiali le prime e serie le seconde. Interessanti esperimenti di psicologia sociale hanno dimostrato come queste associazioni siano ormai cristallizzate nell’inconscio e come ciò modifichi le nostre abilità cognitive. L’Embodied Cognition, per esempio, è una delle principali branche delle scienze cognitive che lavora per dimostrare come e quanto la cognizione umana sia incarnata nell’esperienza corporea. Corpo e mente non sono divisi, la mente passa attraverso il corpo e l’ambiente che lo circonda per esserne influenzata.

I ricercatori Hajo Adam e Adam Galinksy, della Northwest University, hanno pubblicato uno studio in cui dimostrano quanto i vestiti possano modificare l’ attenzione. La ricerca “Enclothed Cognition”, letteralmente “cognizione vestita”, attraverso tre eleganti esperimenti svela il potere del valore simbolico che possono assumere certi abiti, la forza degli stereotipi sociali e l’importanza dell’esperienza fisica nell’influenzare le abilità cognitive.

Nel primo esperimento 58 studenti universitari, selezionati casualmente, sono stati divisi in due gruppi. Al primo gruppo è stato chiesto di indossare un camice da medico, mentre al secondo di indossare i propri vestiti. Entrambi i gruppi hanno poi svolto lo stesso test, ma con risultati molto diversi. Infatti, gli studenti con il camice hanno commesso la metà degli errori degli studenti vestiti da se stessi.

Il secondo esperimento muove un passo in più, e ci porta a riflettere sulla differenza degli stereotipi sociali. Questa volta i ricercatori hanno consegnato ad un nuovo gruppo il camice bianco, specificando fosse un camice da medico, e ad un secondo gruppo lo stesso camice, spiegando che era un camice da pittore. I risultati dei due gruppi in un compito comparativo sono nettamente distinti. Mentre i membri del primo gruppo trovarono molte più differenze tra due foto simili, i membri del secondo gruppo furono vittima degli stereotipi intorno alla contrapposizione tra creatività e logica razionale (i pittori non sono seri e precisi, mentre i medici si). Grazie al terzo esperimento poi, Adam e Galinksy hanno dimostrato che i vestiti invadono il cervello attraverso il corpo. Infatti in una nuovo esercizio per misurare l’attenzione, l’incremento della performance si registrò solo in quel gruppo che indossava il camice da medico, e non in quel gruppo a cui era stato chiesto di osservare un camice da medico appeso al muro.

Questi risultati affascinanti spingono a riflettere su tematiche che intrecciano cognizione, psicologia, filosofia, moda e cultura dimostrando come tutte le dimensioni degli esseri umani siano strettamente interconnesse e interdipendenti. Anche se non bisogna scordare che correre a comprare un camice da medico per il meeting di domani non incrementerà il nostro rendimento in dieci minuti, si aprono degli interrogativi interessanti applicabili alla vita quotidiana. Se il valore simbolico che attribuiamo a certi capi di abbigliamento e l’esperienza fisica dell’indossare questi simboli modifica la nostra cognizione, possiamo pensare che i nostri vestiti preferiti siano carichi di un simbolismo che gli abbiamo attribuito inconsapevolmente? Quando ci sentiamo più sicure indossando un determinato accessorio o abito, questi stanno davvero modificando qualcosa in noi? E addirittura: quando mettiamo quella collana che era di nostra madre, ci trasformiamo un po’ in lei?

Di Maurizia Mezza
Opera di Daniela Monaci
Mr. Q